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Articolo 4

La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto.

Ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società.

Nella relazione dell’on. Ruini al progetto si legge: « L’affermazione del diritto al lavoro, e cioè ad una occupazione piena per tutti, ha dato luogo a dubbi da un punto di vista strettamente giuridico, in quanto non si tratta di un diritto già assicurato e provvisto di azione giudiziaria; ma la Commissione ha ritenuto, e anche giuristi rigorosi hanno ammesso, che, trattandosi di un diritto potenziale, la Costituzione può indicarlo, come avviene in altri casi, perché il legislatore ne promuova l’attuazione, secondo l’impegno che la Repubblica nella Costituzione stessa si assume». 

Effettivamente anche nel corso della discussione in Assemblea il primo comma dell’articolo in esame diede luogo a dubbi e a critiche. Nel suo discorso di chiusura della discussione generale sul Titolo III (nel progetto l’articolo faceva parte del Titolo sui Rapporti economici; fu trasferito ai Principi fondamentali in sede di coordinamento finale: e ciò appunto per sottolineare che trattasi non di una norma giuridica, ma di un principio fondamentale, programmatico, di indirizzo al legislatore), il presidente della 3. Se, on. Ghidini, osservò (A. C, pag, 3704); « Il diritto al lavoro è un diritto potenziale, in base al quale si vuole impegnare vivamente lo Stato ad attuare l’esigenza fondamentale del popolo italiano di lavorare. D’altra parte mi preme rilevare che l’obbligo dello Stato è circoscritto entro un limite preciso, mediante l’inciso: promuove le condizioni per rendere effettivo questo diritto. La 3. Se. aveva proposto un inciso diverso: predispone i mezzi per il suo godimento. Era più drastico, ma parve eccessivo; parve che potesse andare oltre le effettive possibilità e fosse come un promettere troppo in confronto di quanto si poteva mantenere. Si è così adottata (in sede di Comitato di redazione) una dizione che limita entro questo confine di ragione e di piena attuabilità il diritto al lavoro, quel diritto che splende, direi, nella nostra Costituzione come una stella fulgidissima». 

Trattasi, insomma, di un’indicazione programmatica al legislatore per attuare, con una politica tendente alla eliminazione della disoccupazione e alla piena occupazione, la direttiva di ordine generale (« rimuovere gli ostacoli ») di cui all’articolo precedente. Lo stato di disoccupazione è infatti un ostacolo alla libertà e alla eguaglianza dei cittadini per il pieno sviluppo della persona umana. 

Anche il secondo comma fu approvato nel testo del progetto. Affermato nel primo comma il diritto (potenziale, o tendenziale) al lavoro, nel secondo comma si afferma il correlativo concetto del dovere di lavorare: e anch’esso ha un significato tendenziale. È un dovere, insomma, sostanzialmente morale; e, in quanto morale, non vi è sanzione per la sua inadempienza. 

Il progetto prevedeva in effetti una sanzione: che fu esplicitamente esclusa dall’Assemblea. In esso infatti figurava un terzo comma del seguente tenore: « L’adempimento di questo dovere è condizione per l’esercizio dei diritti politici». Ciò significava che l’inadempimento causava la decadenza dall’esercizio dei diritti politici (diritto di voto, di eleggibilità, ecc.). La soppressione fu chiesta da vari deputati di più parti dell’Assemblea; la Commissione si dichiarò « non contraria alla soppressione», che l’Assemblea accolse con una votazione a scrutinio segreto che diede i seguenti risultati: voti favorevoli alla soppressione 235. voti contrari 120. Fra gli altri motivi a sostegno della soppressione fu osservato dall’on. De Maria (A. C, pag. 3725) che « questo comma è in contrasto con l’art. 45 (attuale art. 48) del Titolo IV, ove è detto che non può essere stabilita alcuna eccezione al diritto di voto se non per incapacità civile o in conseguenza di sentenza penale », 

L’on. Foa aveva proposto il seguente emendamento aggiuntivo: « La Repubblica può richiedere ai cittadini la prestazione di un servizio di lavoro». Egli spiegò (A, C, pag. 3722): «Se si deve stabilire un dovere al lavoro, questo dovere deve riflettere l’atteggiamento del singolo nei confronti della società organizzata politicamente, cioè dello Stato; e quindi il dovere al lavoro si traduce, come sua sola formulazione plausibile, in un diritto, da parte dello Stato, di richiedere la prestazione di lavoro ai singoli ». Il presidente della 3. Se. non accettò l’emendamento dicendo (A. C, pag. 3733): « In sostanza l’emendamento ha un sapore di lavoro coatto »; e quindi aggiungendo: « abbiamo già una disposizione che dice (art. 23): nessuna prestazione personale o patrimoniale può essere imposta se non in base alla legge. In essa è implicito che la legge può imporre al cittadino un determinato lavoro. Ma soltanto la legge. In questo sta appunto la garanzia di libertà». 

Non pare tuttavia che l’Assemblea abbia respinto l’emendamento sul presupposto che la relativa norma potesse ritenersi inclusa in quella dell’art. 23. Infatti un rappresentante del Gruppo democristiano, l’on. Bubbio, fece questa dichiarazione di voto (A. C, pag. 3737): « In considerazione delle menomazioni subite dal popolo italiano durante la guerra sotto la forma di prestazioni di lavoro e per evitare che, con il prevalere di eventuali totalitarismi, uguali menomazioni abbiano a ripetersi, mutando il cittadino in uno schiavo di Stato, voterò contro l’emendamento Foa ». Immediatamente dopo ebbe luogo la votazione, e l’emendamento fu respinto. 

Il problema risorse pressappoco identico quando fu posto in votazione l’emendamento dell’on. Canevari per sopprimere nel secondo comma le parole « e alla propria scelta», con il che si voleva limitare il dovere del lavoro soltanto alle proprie possibilità, nell’intento di trasformare il dovere del lavoro in obbligo giuridico. L on. Lucifero fece questa dichiarazione di voto (A. C, pag. 3739): « Confesso che sono sommamente preoccupato, perché ho visto affacciarsi l’ipotesi che, in uno Stato libero, degli uomini liberi possano essere costretti a esercitare un lavoro diverso da quello da essi liberamente prescelto: io non credo che un giorno in Italia, culla del diritto, si possa dire a un cittadino qualunque: ad metallo, abbandona la professione che hai liberamente scelto ! Sono convinto pertanto che l’Assemblea non voterà per una simile vessazione ». Contrari alla soppressione si dichiararono anche i deputati democristiani, a mezzo dell’on. Dominedò. E l’on. Laconi, a nome del Gruppo comunista, dichiarò: « Non è senza stupore che abbiamo assistito a questa incredibile discussione e abbiamo udito la singolare proposta che si limiti la libera scelta dei cittadini là dove è affermato il dovere del lavoro. Io credo che nessuno possa ingannarsi sul significato di questa votazione. Escludendo poco fa il servizio obbligatorio (di cui all’emendamento Foa) e affermando in questo punto il dovere del lavoro, è chiaro che l’Assemblea vuole fare soltanto un’esternazione morale e politica che non comporta dei vincoli e delle coazioni per il cittadino». E l’Assemblea approvò le parole « e alla propria scelta ». 

Che si tratti di un’affermazione morale e politica è d’altra parte confermato dalla stessa dizione del secondo comma dell’articolo in esame. Infatti, il dovere di lavorare vi è affermato in termini poco categorici, perché si tratta di svolgere un’attività o una funzione (e sotto questa parola corrono le più svariate ipotesi) che concorra al progresso materiale o spirituale della società. La parola « lavoro » fu considerata – come sottolineò l’on. Dominedò – « in tutta la pienezza della sua espressione ». « Appare opportuno – proseguì il deputato, parlando a nome del Gruppo democristiano (A. C, 

pag. 3738) – snodare l’idea del lavoro, contemplando così le attività come le funzioni; appare opportuno considerare tutta la gamma della possibile espansione del concetto di lavoro, da quello manuale a quello intellettuale; appare opportuno sottolineare che l’idea del lavoro si ricollega così allo sviluppo materiale come a quello spirituale della società, nella interdipendenza e nella inscindibilità di questi due aspetti fondamentali ». 

L’on. Ruini, nella relazione al progetto, scrisse: « Ad evitare applicazioni unilaterali, si chiarisce che il lavoro non si esplica soltanto nelle sue forme materiali, ma anche in quelle spirituali e morali che contribuiscono allo sviluppo della società. È lavoratore lo studioso ed il missionario: lo è l’imprenditore, in quanto lavoratore qualificato che organizza la produzione ».

L’articolo 4 della Costituzione propone il diritto e il dovere al lavoro come esternazioni morali e politiche, intendendo chiaramente il riferimento alla piena libertà del cittadino di espletare l’attività lavorativa secondo la sua libera scelta ed al fine di attuare il  precedente articolo 3 in merito al pieno sviluppo della persona. In poche parole l’Assemblea costituente si preoccupava affinchè il cittadino concorra allo sviluppo non solo economico della società attraverso un’attività lavorativa, ma anche a quello spirituale e alla sua personale crescita come persona.

C’è da chiedersi se nella nostra moderna società il lavoro, così come concepito ed esplicato da milioni di persone, permette il pieno sviluppo della persona? Sicuramente ci siamo affrancati dallo sfruttamento schiavistico del lavoro, ma questo è sufficiente? Al riguardo, gli studi di Erich Fromm evidenziano che il lavoro dipendente si frammenta sempre più e si riduce a una serie di operazioni ripetitive, che allontanano il lavoratore dal controllo dell’intero processo e lo abbandonano in una condizione di alienazione tale da fargli percepire l’attività lavorativa come qualcosa di estraneo e ostile. Egli scriveva nell’importante testo I cosiddetti sani-La patologia della normalità che “È risaputo che l’operaio moderno soffre di una noia tremenda, e odia il proprio lavoro. In quanto persona non viene arricchito ma storpiato dal processo lavorativo, poiché nessuna delle sue facoltà ha la possibilità di essere coltivata e di crescere. D’altra parte non potrebbe essere altrimenti in un sistema in cui si produce per amore del profitto procurato dalla merce, e non per il valore sociale e culturale di ciò che si produce.”

E questo è valido sia per l’operaio della fabbrica sia per l’impiegato preda di una esasperata burocrazia. Discutere e riattualizzare l’articolo 4 oggi e ponendo al centro il senso e il significato del lavoro per l’individuo, significa rendere viva la Costituzione italiana. Altrimenti risulteranno vani tutti gli sforzi dei partecipanti l’Assemblea costituente con il rischio che il nostro vivere sociale abbia come sola bussola il profitto e la competizione, dimenticando l’essere umano per favorire l’automa e la macchina.  

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