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In genere le leggi dittatoriali di un regime provocano la nascita di cori popolari che inneggiano alla libertà. Il terrore e la violenza di un Stato di polizia determinano naturalmente che la parola libertà diventi il principio ispiratore di una rivoluzione. La libertà di essere lasciati liberi di vivere. Pensiamo ai campi di concentramento nazisti e come la parola libertà, in quelle tenebre, penetrava dolorosamente nelle carni e nelle menti dei deportati. La libertà di pensiero, di parola, di religione, di circolazione, di riunione, di associazione. Tutte libertà conquistate con il sangue e con tanto dolore. Ma cosa accade alla parola libertà quando è presente una dittatura morbida? Quando con il termine di democrazia si cela nell’ombra un’oligarchia gerarchica? Quando la democrazia è rappresentativa ma anche e soprattutto capitalistica? Quando scegliere i padroni con le elezioni non cambia la condizione degli schiavi? Quando l’oppressione arriva da un regime democratico totalitario? Un’oppressione costruita con la propaganda e con l’ingegneria del consenso.

Un’oppressione che non è violenta, ma che annichilisce la coscienza individuale tramite la pianificazione ed organizzazione di una società consumistica e alienante. In tale contesto la ricerca della libertà può diventare la prigione stessa. Una prigione che ci incatena a valori e bisogni a noi estranei e falsi: intrattenimento, consumazione di beni e servizi che instupidisce, competizione, lavoro alienante. Una libertà incatenata alla volontà di potenza e alla misura del nostro ego. Una libertà che non ci fa volgere lo sguardo verso l’uscita della caverna. Questa nostra democrazia è la Città del disordine e dell’opinione individuale. Una Città che si frantuma e si trasforma in demagogia, tradendo così la propria legge della libertà individuale. Quando un siffatto regime democratico ci opprime, nella maggior parte delle volte non ce ne accorgiamo. Troppo grandi e magnificenti sono i progressi tecnologici e l’apparente miglioramento del nostro tenore di vita per destare noi dormienti. E in quelle poche occasioni in cui nasce in noi un sussulto di consapevolezza, pretendiamo quella libertà che ci riporta inesorabilmente alla nostra condizione di schiavitù 2.0, al nostro carnefice.

Lottiamo contro l’oppressione per continuare a rimanere oppressi. Se il nostro vivere si sostanzia solo in bisogni e necessità, solitudine dei nostri effimeri desideri, impulsi dettati dall’inquietudine, allora tanto vale farsi trasportare dall’opinione, dalla corrente, dal gregge, dalla massa informe e dal sentimento dominante. E’ più semplice, reca meno sforzo e non si perde mai!

Se volessimo veramente ribellarci ad una democrazia autoritaria, dovremmo dapprima liberarci dalle instabili processioni del sé. Un sé non da noi compreso che cerca di identificarsi con la stessa società che lo soffoca. Forse, allora, bisognerebbe parlare di liberazione anziché di libertà per spezzare le catene della paura. Liberazione dalle costrizioni del sé. (da La schiavitù della libertà e dell’Amore di Sergio Caldarella). Obbedire ad un supremo principio etico dove la sola libertà è nel perdersi in una verità di ordine superiore. Un mondo al di là del mondo come spiegava Socrate.

I motivi che guidano e illuminano l’azione dell’uomo sono sempre gli stessi: onore, fedeltà, amore del vero e devozione al bene. Senza una riforma del cuore non ci può essere libertà. (ibidem) 

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