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In tutti i paesi civili, a fianco di un despota che comanda si trova quasi sempre un giurista che legalizza e dà sistema alla volontà arbitraria e incoerente del primo… Quando queste due forze si incrociano, si stabilisce un dispotismo che lascia appena respirare l’umanità; colui che ha solo l’esperienza del principe senza quella del giurista non conosce che una parte della tirannia. Bisogna riferirsi ad entrambe nel contempo, per capire il tutto.

Alexis de Tocqueville

Dall’Enciclopedia online Treccani: Il principio di legalità è uno dei caratteri essenziali dello Stato di diritto (Forme di Stato e forme di governo): con l’avvento del costituzionalismo liberale, infatti, si afferma l’idea che ogni attività dei pubblici poteri debba trovare fondamento in una legge, quale atto del Parlamento, a sua volta unico organo diretta espressione della sovranità popolare o della nazione.

La Costituzione circoscrive (almeno potenzialmente) la discrezionalità del legislatore ai principi di libertà e di uguaglianza oltre i quali la legge non potrebbe essere fondamento di nessuna disciplina.

In estrema sintesi potremmo definire la legalità come la conformità di un’azione alla legge. Kant in Critica della ragion pratica e nella Metafisica dei costumi distinse la legalità così intesa dalla vera e propria moralità. “Il puro accordo o disaccordo di un’azione con la legge senza riguardo al movente dell’azione stessa, si chiama legalità (conformità alla legge)”. Da tale declinazione di legalità deriva anche il concetto di legalismo, ossia l’atteggiamento che insiste sull’osservanza letterale della legge, nel dare eccessivo valore alle prescrizioni o ai procedimenti formali. 

Per affrontare in modo più compiuto il significato del principio di legalità, oltre che scrollarci di dosso un certo idealismo retorico per cui tutto quello che è legale è anche giusto, è necessario anche affrontare dei discorsi intorno alla parola “legge”. Potremmo definire la legge una regola dotata di necessità, intendendosi per necessità: 1° l’impossibilità (o l’improbabilità) che la cosa regolata accada altrimenti; oppure 2° una forza che garantisca la realizzazione della regola. Al fine di analizzare la legge giuridica, che si differenzia dalla legge naturale, necessariamente si prenderà ad esame il concetto di “diritto”. 

Il diritto, in senso generale, è la tecnica della coesistenza umana, cioè la tecnica diretta a rendere possibile la coesistenza degli uomini ed a regolamentare il comportamento reciproco degli uomini fra loro.  È possibile la produzione di un diritto, e quindi di una legge giuridica, che produce ingiustizia? La soppressione dei diritti fondamentali da parte di una tirannia è solo figlia dell’arbitrio oppure potrebbe anche servirsi del diritto? 

Esiste una concezione che considera e riduce il diritto alla mera forza e ad una tecnica sociale. Tale istanza fu avanzata frequentemente dai Sofisti. Antifone asseriva che tutte le leggi sono puramente convenzionali e che il modo di vivere è quello di pensare al proprio utile. Idee simili a queste sono espresse da alcuni personaggi dei dialoghi di Platone, come Callicle nel Gorgia e Trasimaco e Glaucone nella Repubblica. Il diritto è concepito in termini utilitari, non per la realizzazione di un ordine, ma per il perseguimento di un vantaggio e avrebbe, perciò, un carattere pratico. In questo modo il diritto diventa forza, costrizione esterna che garantisce la realizzazione della norma: sicchè il diritto come forza è il diritto realizzato, cioè il diritto che trova corpo e sostanza in istituzioni storicamente esistenti. Si prescinde da ogni ideale valutativo e cioè dalla stessa nozione di giustizia, che viene abbandonata alla sfera politica e morale, ma ritenuta estranea a quella del diritto. Da qui deriva il diritto positivo che non include nessun valore ultimo ed assoluto. È semplicemente uno strumento per raggiungere certi scopi; e, come ogni strumento, si può giudicare rispetto alla sua efficienza, cioè alla sua capacità di garantire un ordinamento (qualsiasi) della società umana. In epoca moderna John Austin ha definito il diritto come “la regola posta per la guida di un essere intelligente da un altro essere intelligente che abbia potere su di lui”. Il diritto sarebbe quindi un comando: l’espressione della volontà di un individuo la quale sia vincolante per l’individuo a cui è diretta, nel senso che lo obblighi a fare ciò che il comando richiede. Nella dottrina sociologica del diritto, Eugen Ehrlich riteneva che “il diritto è un’organizzazione, vale a dire una norma, che assegna a ciascun membro dell’associazione la sua posizione nella comunità, sia essa di preminenza o di soggezione, e i suoi doveri”. A questi precedenti si richiama il rappresentante della teoria formale del diritto, Kelsen che considerava il diritto “la tecnica sociale specifica di un ordinamento coercitivo” ed è perciò contrassegnato dalla “organizzazione della forza”. Questa concezione del diritto esclude qualsiasi rimando al concetto metafisico di giustizia, non avvertendone l’esigenza.

A questa elaborazione del diritto si contrappone e si integra, nello stesso tempo, il diritto naturale come fondamento o principio di ogni diritto positivo possibile, cioè come condizione della sua validità. Il diritto naturale è la norma costante e invariabile che garantisce la realizzazione del migliore ordinamento della società umana. Il diritto naturale è la perfetta razionalità della norma, cioè la perfetta adeguazione della norma al suo fine di garantire la possibilità della vita associata. Tale garanzia infallibile ha visto da Platone ad Aristotele, dagli Stoici ai giuristi romani, quest’ultimi costruttori del (garantista) sistema accusatorio, l’architrave razionale di tale concetto. Platone, attraverso Socrate, nella Repubblica ha in realtà definito il diritto quando ha definito la giustizia come ciò che rende possibile ad un gruppo d’uomini qualsiasi, sia pure una banda di briganti o di ladri, di stare insieme e di agire per uno scopo comune. Aristotele qualifica il diritto nei confronti di una coesistenza giusta, cioè razionalmente perfetta. Il diritto, egli dice in Etica Nicomachea, è “ciò che può creare e conservare, in tutto o in parte, la felicità della comunità politica”; dove è da ricordare che la felicità, come fine proprio dell’uomo, è la realizzazione o perfezione dell’attività che è propria dell’uomo, cioè della ragione. La sanzione del diritto, egli dice inoltre nella Politica, è l’ordine della comunità politica e la sanzione del diritto è la determinazione di ciò che è giusto. Il diritto fondato solo sulla convenzione e sull’utilità è analogo alle unità di misura che variano da luogo a luogo; il diritto naturale è invece “ciò che ha la stessa forza dappertutto ed è indipendente dalla diversità delle opinioni”. Gli stoici non fecero che rendere esplicito il fondamento di questa dottrina identificando il diritto naturale con la giustizia e la giustizia con la ragione. Ed essa veniva espressa nella sua forma più smagliante in un passo famoso di Cicerone, conservatoci da Lattanzio: “Vi è certo una vera legge, la retta ragione conforme a natura, diffusa fra tutti, costante, eterna, che col suo comando invita al dovere e col suo divieto distoglie dalla frode… A questa legge non è lecito apportate modifiche, né togliere alcunchè, né annullarla in blocco… Essa non sarà diversa a Roma o ad Atene o dall’oggi al domani, ma come unica, eterna, immutabile legge, governerà tutti i popoli e in ogni tempo, ed una sola divinità sarà guida e capo di tutti: quella cioè che ritrovò, elaborò e sanzionò questa legge: e chi non le obbedirà sfuggirà a se stesso, e per avere rinnegato la stessa natura umana, sconterà le più gravi pene, anche se sarà riuscito a sfuggire a quelli che solitamente sono considerati supplizi”. Questo concetto del diritto portava, fra l’altro, a riconoscere l’uguaglianza fra tutti gli uomini, dato che in tutti gli uomini, per la loro natura razionale, si rivela la legge eterna della ragione. In Cicerone, si trova uno dei più importanti corollari della dottrina del diritto naturale; cioè che il principio e il fondamento di ogni diritto devono ricercarsi in quella legge naturale che è stata emanata prima che qualunque Stato esistesse; e che pertanto, se il popolo o il principe possono far leggi, queste non hanno un vero carattere di diritto se non sono derivate dalla legge prima. I giuristi romani elaborarono una dottrina del diritto assai simile a quella degli stoici. Verso la metà del II secolo Gaio, nelle prime parole delle sue Istituzioni, che sono riportate anche nel Digesto, affermava: 1° che esiste un diritto delle genti (jus gentium) universale, che comprende principi riconosciuti da tutta l’umanità; 2° che tali principi sono stati insegnati agli uomini dalla ragione naturale e sono perciò coevi col genere umano. Da ciò deriva che non tutte le leggi universalmente riconosciute tali dagli uomini sono fondate sul diritto naturale: per esempio, la schiavitù, come nota Ulpiano sempre nel Digesto, per quanto universalmente ammessa (nel contesto dell’epoca), non è fondata sul diritto naturale perché l’uomo è originariamente libero. 

Il diritto naturale e il diritto positivo, aventi entrambi il fine della coesistenza degli esseri umani, si contrastano e si integrano nello stesso tempo vicendevolmente, costruendo un fecondo rapporto dialettico fondamentale per la realizzazione di una reale democrazia fondata sulla libertà e l’uguaglianza. Se da una parte il diritto naturale conserva la sua funzione di fondamento e qualche volta di archetipo o modello di ogni diritto positivo, dall’altra quest’ultimo principio struttura il diritto attraverso la sua efficienza nella disciplina dell’applicazione delle regole. In ogni caso, il diritto naturale e, quindi, l’appello alla ragione (che non è altro l’aspirazione al bene, al sommo bene) costituisce il limite e una disciplina per ogni forma di autorità statale o politica. Prendendo ad esempio il nostro moderno sistema giuridico, possiamo permetterci di dire che il diritto naturale è stato profuso nei primi 12 articoli della Carta costituzionale sotto la voce di “principi fondamentali” e il limite all’arbitrio del potere è stato individuato soprattutto nella strutturazione di Montesquieu dell’indipendenza dei poteri dello Stato (legislativo, esecutivo e giudiziario). Per Montesquieu “non vi è libertà se il potere giudiziario non è separato dal potere legislativo e da quello esecutivo. Se esso fosse unito al potere legislativo, il potere sulla vita e la libertà dei cittadini sarebbe arbitrario, poiché il giudice sarebbe al tempo stesso legislatore.”

Tanto più il diritto positivo non è retto dalla ragione, tanto più l’essere umano può cadere nella follia di un ordinamento giuridico che sorregge ed è sorretto solo dalla forza, dall’arbitrio e dalla volontà di potenza: l’ideologia, la dittatura nascono dentro le fessure del legno storto dell’umanità e la forma di uno Stato democratico può portare in seno il rogo ardente della tirannia. 

“Troppo spesso assistiamo a pompose e dotte celebrazioni sulla legislazione liberale e sulla libertà di pensiero […] La Rivoluzione francese e la dichiarazione dei diritti dell’uomo servono per le grandi occasioni, come uno smoking.” Bisogna prendere atto, come la storia del diritto ci insegna e ammonisce nello stesso tempo, che l’applicazione della violenza legale sia un fatto istituzionale e non contingente, legato a tutta una concezione repressiva dell’eterodossia. Importante strumento di analisi in tal senso è il testo di Italo Mereu Storia dell’intolleranza in Europa che dipana le tragiche esperienze giuridiche europee succedutesi nel corso di qualche secolo. In quarta di copertina è scritto: “La Storia non è tutta storia della Libertà ma piuttosto del suo contrario, se vogliamo parafrasare quella famosa proposizione incantatoria.” L’esperienza giuridica di tutta l’Europa è fortemente influenzata dal diritto romano-cristiano. La Chiesa cattolica è la prima istituzione europea che ha creato, e ha tradotto (o fatto tradurre) in leggi i concetti fondamentali intorno a cui la categoria giuridica del sospetto ruota. Si può riassumere nella formula: consenso o repressione oppure sospetto e intolleranza, sospettare e punire. Mereu ci dice che fede, fedeltà, ortodossia, obbedienza cieca e gregaria sono le fondamenta su cui sempre sono stati basati, nel loro corso storico, tutti i diversi ordinamenti giuridici dell’Europa continentale. Da cui derivano piaggeria, conformismo, ipocrisia, coscienza minorile, autocritica preventiva, devianza, dissidenza, eresia come presupposti del sospetto. Se non prendiamo atto di questa situazione, afferma Mereu, continueremo a fare i soliti discorsi che non portano a nulla. La Chiesa cattolica, uno Stato, un Governo quando si proclamano come l’unica, la sola e la vera interprete della realtà, la custode e l’unica guida autorizzata dal mandato e dal camuffamento giuridico, dal principio di legalità denudato del vestito della giustizia, del bene e della ragione, si erge un “muro” invalicabile che confina la libertà dietro il ricatto legale. Mereu scrive: “È da questa posizione di intolleranza costituzionale che bisogna partire se si vuole intendere storicamente le diverse forme in cui sarà organizzato l’apostolato penale.” E personalmente aggiungo che è da questa posizione di intolleranza legale che bisogna saper osservare il nostro presente giuridico. La legge è stata molte e troppe volte utilizzata per sopprimere la libertà dell’individuo a favore del potere di pochi attraverso l’uso di appellativi mistificatori e mimetizzanti per mascherare l’arbitrio dell’autorità. Pensiamo alla parola “eretico” durante il periodo inquisitoriale e al procedimento “legale” con cui venivano imprigionati, torturati (con il rigoroso esame) e bruciati vivi gli eretici. Come scrive sempre Mereu, l’Italia è diventata una ed indipendente, proclamandosi ideologicamente liberale, ma agendo e comportandosi sempre da stato autoritario e sottoponendo principi ed ideali alla libertà alla “ragion di Stato. Si pensi, per esempio alle prime misure di pubblica sicurezza adottate dall’Italia liberale con la legge approvata dalla Camera del Parlamento subalpino il 26 febbraio 1852 con cui per i vagabondi, gli oziosi e i sospetti per furti di campagna era previsto l’arresto fino a 5 anni di carcere. Dal punto di vista dell’effettività, era la prima legge sociale dell’Italia che “sorge” contro i disoccupati, gli emarginati e i contadini. Una disciplina giuridica che sarà inglobata anche successivamente all’unità d’Italia e che vedrà un inasprimento contro la figura del Brigante a tutela della del “nuovo ordine”. Viene pubblicata il 15 agosto 1863 la legge n. 1409 e le pene previste erano la fucilazione anche in caso di semplice resistenza e l’ergastolo per i casi di complicità con i briganti. Oppure possiamo rivolgerci ai due distinti provvedimenti legislativi che furono varati nella Germania Nazista nel settembre del 1935, conosciuti come le Leggi di Norimberga: la Legge per la cittadinanza del Reich e la Legge per la protezione del sangue e dell’onore tedesco. Ed ancora, possiamo ricordare l’insieme di provvedimenti legislativi e amministrativi applicati in Italia fra il 1938 e il primo lustro degli anni quaranta, inizialmente dal regime fascista e poi dalla Repubblica Sociale Italiana, rivolti prevalentemente contro le persone ebree. Come si può non ricordare il famoso art. 58 del codice penale del regime stalinista con il quale si poteva essere puniti con 20 anni nel gulag per “sospetto spionaggio”, per “mentalità ControRivoluzionaria”, “maturazione di atteggiamenti AntiSovietici”, “elemento Socialmente Pericoloso” ecc.

Questi elencati sono tutti casi di violenza legale la cui efficienza rasentava la perfezione. Il diritto diventava uno strumento tecnico nelle mani dell’ideologia che nei dati momenti storici imperava. C’è da chiedersi – e la domanda è quanto mai urgente e fondamentale – se il nostro “preoccupante tempo” si è ormai diretto verso i porti sicuri della libertà e del rispetto della dignità umana, oppure produce anch’esso, anche oggi, la “violenza legale”. Dobbiamo urgentemente chiederci se la forma democratica del nostro ordinamento giuridico, cede il passo, nell’effettività, ad un diritto sostanziale che utilizza la legge per sopprimere i diritti e le libertà fondamentali sanciti nei primi 12 articoli della Costituzione. C’è da chiedersi, soprattutto, come bisogna leggere la gestione normativa in merito all’allarme sanitario del Civd-19 dal 2020 in poi e se la soppressione, di fatto, di diritti e libertà naturali come quella di movimento, di istruzione, di parola, di cura, di lavorare contenga il germe della violenza legale e una celata (orami evidente a mio avviso) ideologia. Abbiamo assistito al depotenziamento del Parlamento ad organo meramente consultivo e all’ingigantimento dei poteri nelle mani del Governo. Mentre il potere giudiziario è divenuto solo uno strumento tecnico sottoposto al politico, “la voce del padrone”? Le sentenze n. 14, 15 e 16 di febbraio 2023 della Corte costituzionale (il Giudice delle leggi), allorquando affermano che anche il decesso a seguito della vaccinazione è tollerabile perché indennizzabile, non siamo di fronte alla segregazione del concetto di persona ad una merce, non diventa in questo modo l’individuo un “bene fungibile”? Se un cittadino rifiutava la vaccinazione anti-Covid, veniva sospeso il diritto costituzionale al lavoro e alla retribuzione, e quindi, al sostentamento, mentre là fuori circolava una “pericolosa” infezione curabile con l’antinfiammatorio! Come è possibile nel XXI secolo sospendere del tutto un diritto costituzionale (come quello del lavoro e della retribuzione) annientando ogni spazio minimo del diritto? È fondamentale porsi questi interrogativi perché il parlare di Costituzione, di libertà, di progresso giuridico, evidentemente corre il rischio di diventare “un raccontar fiabe ed il potere può continuare a servirsi, con questo pretesto, dei vecchi mezzi repressivi.”

La tutela della “vera fede”, della “vera scienza”, dell’unità nazionale, della “patria”, della pace sociale, dell’ordine pubblico, della salute collettiva, potrebbe mimetizzare e coprire, attraverso l’uso di un “linguaggio iniziatico gli interessi e i comportamenti e gli umori di chi comanda.”

È importante comprendere che la tecnica giuridica può essere portata sia al servizio del bene sia al servizio del male. E il male è un abile e astuto trasformista che può travestirsi del suo contrario: “è accaduto, e quindi può accadere” che i principi generali sono sempre chiari, nobili, elevati, ma possono essere affiancati da regole speciali, da eccezioni, da casi in cui la legge non può essere applicata, e ha valore la disposizione contraria. Come scrive giustamente Mereu nella citata opera: “è evidente come la storia del diritto è stata sempre fatta badando al progetto ideologico, oppure guardando astrattamente agli istituti, ma trascurando completamente il livello dell’effettività […] è il vecchio gioco che continua. Il solito “giuoco” italiano in cui, mentre si esalta la libertà, si tessono le lodi dell’inquisizione e della repressione violenta […] Dei principi fondamentali fissati nei primi dodici articoli, l’unico realizzato in pieno – come è stato, icasticamente, osservato – è solo l’ultimo: quello che stabilisce il colore della bandiera verde, bianco e rosso, a tre bande verticali di uguale dimensione. Per il resto, la storia del diritto concretamente attuato è lì ad attestarci come il contrasto tra ideologia ed effettività, cioè, tra il dire e il fare, continui. Senza interruzioni, pause o smentite. Come prima”

“L’ideologia! È lei a fornire la giustificazione che cerchiamo alla malvagità e la duratura fermezza necessaria al malvagio. È la teoria sociale che gli permette di giustificarsi di fronte a se stesso e agli altri, di ascoltare non rimproveri né maledizioni, ma lodi e omaggi. Con gli inquisitori si facevano forti con il cristianesimo, i conquistatori con la glorificazione della patria, i colonizzatori con la civilizzazione, i nazisti con la razza, i giacobini e i bolscevichi con l’uguaglianza, la fraternità, la felicità delle generazioni future. Grazie all’ideologia è toccato al ventesimo secolo sperimentare una malvagità esercitata su milioni di persone. Una malvagità inconfutabile che non può essere passata sotto silenzio né ignorata: con che coraggio possiamo continuare a dire che i malvagi non esistono? Chi annientava quei milioni di persone? Senza malvagi l’Arcipelago non sarebbe esistito.” Aleksandr Solzenicyn in Arcipelago Gulag.

Dinanzi alla tirannia di un’ideologia che utilizza la violenza legale come fidato braccio armato, solo l’appello e l’anelito alla giustizia, alla ragione, al sommo bene, ad un recupero della coscienza, può permettere il cittadino di scorgere una risposta matura, adulta e responsabile contro la tracotanza del potere e difendere la libertà. L’affidamento sentimentale del cittadino medio ad una astratta legalità percepita quasi come fede ottimistica in una provvidenza benevola, rende cieco il cittadino stesso di fronte alla violenza legale e alle scelte politiche ad essa sottese. La giustizia non è e non deve mai essere “l’utile del più forte”, ma deve incarnarsi nell’idea del bene che Platone affermava essere “il regno di un potere divino razionale in tutto ciò che esiste e in tutto ciò che viene a darsi nel mondo” (Artur O. Lovejoy in La grande catena dell’essere).

La speranza è che i discorsi culturali, le parole buone dei grandi uomini e donne del passato non diventino “un solitario fantasma che proclamava una verità che nessuno avrebbe mai udita”.

Domenico Conversa

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