Con il presente contributo si tenterà di offrire degli spunti di riflessioni in merito alle recentissime elezioni europee e amministrative.
Per la prima volta, per le elezioni europee, meno di un italiano su 2 è andato a votare. Ad eccezione del 2004, quando il dato definitivo fu del 71,7% e del 1999 con il 69,8%, l’affluenza per le europee ha visto un costante e progressivo vistoso calo. Nel 2014 votò, alla chiusura dei seggi, il 57,22% degli aventi diritto mentre nel 2019, quando si votò solo di domenica, alle urne andò il 54,5%.
Il risultato non connota nessuna grande sorpresa: Fdi è il primo partito ad essere più suffragato, a seguire il Pd, M5s, Forza Italia, Lega, Alleanza Verdi-Sinistra (formazione che arriva al 6,7 % anche aiutata dall’alta percentuale di astensione).
A livello europeo il Partito popolare europeo (Ppe) ottiene, secondo le proiezioni 189 seggi («Siamo la più grande forza al Parlamento europeo e nessuna maggioranza potrà essere formata senza il Ppe. Costruiremo un bastione contro gli estremisti da sinistra e da destra» ha detto Von Der Leyen); i socialdemocratici 135; i liberali e macroniani di Renew Europe 83; i conservatori dell’Ecr (guidati da Meloni) 72; l’estrema destra di Identità e democrazia (con leghisti e lepenisti) 58; i Verdi 53; la Sinistra 35. A indietreggiare sono i Verdi, che da quarto gruppo diventano il sesto, sorpassati dall’Ecr e da Id. Pertanto, ai vertici delle istituzioni europee potrebbe cambiare poco o nulla e la Von Der Leyen pensa già al secondo mandato. Per tale motivo non si comprende l’allarmismo generato dall’informazione generalista riguardante la grande vittoria dell’estrema destra. Forse in alcuni Paesi come Germania, Francia e Italia i partiti di destra hanno ottenuto considerevoli risultati, ma a livello europeo, appunto, la situazione rimane stabile.
In concomitanza con le elezioni europee, si sono svolte anche le elezioni comunali 2024 e le Regionali in Piemonte, che hanno visto più di 3.700 città al voto, con milioni di elettori coinvolti. La media nazionale dell’affluenza alle comunali alle ore 23 di domenica 9 giugno, quando si sono chiuse le urne, si colloca al 62,66%, in calo rispetto al 67% dell’ultima tornata come comunica il ministero dell’Interno.
Tutto quanto premesso, si cercherà in primis di analizzare il fenomeno dell’astensionismo, sicuramente il protagonista indiscusso e fenomeno variegato delle ultime elezioni, soprattutto europee.
L’astensione al voto è una scelta che molti elettori fanno per vari motivi, come la disillusione politica, la mancanza di fiducia nei candidati o il disinteresse generale ed anche come forma di protesta nei confronti del sistema costituito. Tuttavia, l’astensione può avere conseguenze significative sul processo democratico.
Il voto è un dovere civico e una responsabilità fondamentale in una democrazia. Astensionismo equivale a rinunciare a una delle principali opportunità di influenzare le decisioni politiche. L’astensione può portare a un governo meno rappresentativo. Se una parte significativa della popolazione non vota, i risultati elettorali rifletteranno solo la volontà di chi ha partecipato, spesso distorcendo la vera volontà popolare.
Inoltre, le elezioni con alta astensione possono portare al potere candidati o partiti che rappresentano solo una minoranza attiva, ignorando i bisogni e le opinioni della maggioranza silenziosa.
Quello che in genere non viene preso in considerazione da parte di chi sceglie di non votare è che l’astensione può alimentare un ciclo di disillusione. Più persone si astengono, meno rappresentativo diventa il governo, alimentando ulteriormente la sfiducia e il disinteresse e senza la partecipazione attiva dei cittadini, è difficile promuovere cambiamenti significativi. I politici potrebbero non sentire la pressione di rispondere ai bisogni della popolazione se l’astensione è alta.
Invece di astenersi, gli elettori insoddisfatti possono esprimere il loro disappunto votando per specifici candidati alternativi o partiti minori, inviando un segnale forte al sistema politico.
Impegnarsi attivamente nella politica locale e nazionale, partecipare a discussioni pubbliche e sostenere iniziative civiche può essere un modo più efficace di influenzare il cambiamento.
È vero che ci troviamo in un lungo momento storico di disincanto e di distacco dalla politica, cristallizatosi soprattutto negli anni ’90 con l’ascesa di Silvio Berlusconi e la fine della “Repubblica dei partiti” e poi con l’imbarbarimento del “fare politica” attraverso il comico genovese con i suoi “vaffa day”. Risulta anche evidente che, oggi, la politica viene costruita con un’efficiente comunicazione mediatica che fa leva sugli slanci emotivi delle masse e su degli slogan che riducono la discussione politica a chiacchiericcio da bar. Molto difficile per le nuove formazioni politiche poter entrare a far parte, da protagonisti, dell’agone politico senza un grandissimo investimento in comunicazione. Tutto questo crea una grande sfiducia nel cittadino e un senso di frustrazione.
Ma è pur vero che ogni cittadino dovrebbe, anche se difficile, portare il proprio contributo nella società e non allontanandosi da essa. Aldo Moro, in una lettera a Riccardo Misasi, deputato calabrese e poi ministro, individuato dallo stesso Moro come “portavoce durante i 55 giorni della prigionia”, in merito all’annosa questione della verità politica, scrisse: “datemi un milione di voti e toglietemi un atomo di verità e io sarò comunque perdente.” Si sente in giro sostenere la fine della politica. Tale affermazione contiene una buona dose di forzatura, perché la politica non finisce mai: così come non è finita la storia nel 1989, certamente non è finita la politica in Italia nel 1978. Certo, è entrato in crisi allora quel sistema politico, nato nell’immediato dopoguerra, che aveva iniziato a formarsi negli anni tra il ’43 e il ’45, prima ancora della Costituente, e aveva preso la forma di quella che Pietro Scoppola definiva “la Repubblica dei partiti”. La Repubblica dei partiti non è stata solo un sistema politico, ma anche un sistema di valori, una chiave d’accesso alla cittadinanza, un’esperienza individuale e collettiva di emancipazione. Che ne è rimasto? Cosa ha preso il posto di quella politica? Sono le domande a cui il nostro tempo dovrebbe rispondere. Nel frattempo che il cittadino diventi tale e si desti alla sua autonomia individuale, potremmo chiedere al grande giurista Piero Calamandrei cosa ne pensa dell’impegno politico. Nel testo Patologia della corruzione parlamentare, Piero Calamandreiprotesta con calore che non tutti i parlamentari sono delinquenti e ladri.
“I cittadini devono arrivare a sentire che chi accusa tutti i deputati di essere tali, in realtà rivolge questa accusa non agli eletti, ma agli elettori. In regime democratico i deputati rappresentano il popolo; e chi scaglia fango su loro, colpisce tutto il popolo che li ha scelti”.
I rimedi?
Sono nelle righe fiduciose, che oggi hanno un suono amaro, con cui si concludono quelle pagine di straordinaria contemporaneità: “Bisognerà far di tutto per migliorare il costume. Sarà l’educazione politica che da sola potrà ridurre, fino a farli scomparire, i pericoli e le occasioni di corruzione parlamentare. Non è coll’irridere la politica, col disprezzarla e coll’estraniarsene che la politica si risana: bisogna entrarci dentro e resistere allo schifo”.