La differenza tra noi del mondo occidentale e i popoli che oggi vivono la tragicità della guerra, di qualsiasi guerra, è che noi non abbiamo il fronte in casa nostra. Questo alimenta in noi più fantasie sulla guerra. L’industria dello spettacolo (Holliwood, il libero mercato delle fantasie) contribuisce da più di mezzo secolo ad aumentare questa disparità, creando una continua esperienza di immagini belliche artificiali, tanto che, oggi, gli orrori, le uccisioni, i corpi senza vita che da più fronti arrivano sui nostri piccoli e grandi schermi, vengono da noi assorbiti come distanti, appunto, artificiali. L’immaginazione collettiva soddisfa così l’universale bisogno di eroi con figure fittizie, mentre fa nessuna esperienza delle profonde depressioni e lacerazioni che l’intimità con la guerra lascia tra chi veramente la vive. Il rischio è proprio che il cittadino dell’Occidente “perduto”, non avverta con chiarezza la follia insita nella violenza della guerra credendo, pertanto, che i suoi Paesi siano ampiamente al sicuro. Non è così che la storia ci ha testimoniato i suoi corsi e ricorsi. Viviamo in un clima di costante aggressività emotiva e martellante campagna comunicativa sensazionalista.
A differenza del flessibile Odisseo, che ora uccide ora risparmia il nemico, a seconda delle circostanze, Ahab, del romanzo di Malville Moby Dick, il navigatore per cui la meta non è Itaca ma una forza malvagia da annientare, odia senza margini di riscatto: crede in un’unica verità, la vendetta. Tutto il resto viene di conseguenza, ed è un prezzo accettabile. E il prezzo della guerra a morte include la morte di Ahab stesso.