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L’altro giorno stavo parlando con una persona che conosco molto bene, un professore di liceo con cui ho spesso conversazioni interessanti. Tra i vari temi emersi, siamo finiti a discutere della questione israelo-palestinese. A un certo punto ha detto che, secondo lui, per capire davvero quello che sta succedendo oggi bisogna partire dalla Guerra dei Sei Giorni. Ho pensato: finalmente qualcuno che ha capito il nodo centrale della questione! Infatti, è proprio da lì che parte molta della propaganda che oggi si riassume nello slogan “Palestina libera” — e in particolare nell’idea, storicamente scorretta, che la Striscia di Gaza rappresenti la Palestina.

Nel 1967, durante la Guerra dei Sei Giorni, Israele si trovò circondato da nemici pronti ad attaccare: Egitto, Siria e Giordania. Di fronte a questa minaccia esistenziale, Israele lanciò un attacco preventivo, soprattutto contro l’Egitto. Grazie anche all’effetto sorpresa e a una strategia militare efficace, Israele ottenne una netta vittoria, nonostante l’inferiorità numerica. Da quella guerra, Israele occupò militarmente la Striscia di Gaza, che fino a quel momento era sotto il controllo dell’Egitto. L’occupazione fu pensata come una misura difensiva, una sorta di “zona cuscinetto” per proteggersi da futuri attacchi.

Eppure, quel professore — che pure stimo — interpreta proprio quegli eventi come prova della “colpevolezza” di Israele, in linea con una narrativa oggi molto diffusa che dipinge lo Stato ebraico come uno Stato coloniale e genocidario. Mi ha colpito quanto la sua lettura, pur partendo dallo stesso punto storico che io considero fondamentale per chiarire i fatti, arrivi a conclusioni diametralmente opposte.

Secondo me, è proprio la mancata comprensione di ciò che accadde nella Guerra dei Sei Giorni a segnare una frattura nella sinistra italiana. Da allora, una parte consistente di quel mondo politico e culturale si è rifugiata in una narrazione ideologica e distorta, costruita su semplificazioni e vere e proprie menzogne storiche.

Dopo quella conversazione, ho deciso di inviare al mio amico professore un mio scritto, nel quale cercavo di approfondire il discorso partendo da un libro fondamentale: I protocolli. Licenza per un genocidio di Norman Cohn. Attraverso le pagine di quel libro e la mia riflessione, cercavo di mostrare come nel corso della storia sia stata costruita, pezzo dopo pezzo, una delle più grandi menzogne mai raccontate: la rappresentazione del popolo ebraico come male assoluto, come una minaccia da annientare. Una narrazione alimentata da falsificazioni, stereotipi, e teorie cospirative, che hanno avuto conseguenze devastanti nel corso del Novecento — e che, tragicamente, sembrano riproporsi ancora oggi sotto nuove forme. Quello che volevo dire era che, così come I Protocolli dei Savi di Sion furono un falso creato ad arte per giustificare l’odio e persino lo sterminio, anche oggi certe narrazioni continuano a funzionare con gli stessi meccanismi. Cambiano i contesti, cambiano le parole, ma resta intatta la volontà di demonizzare Israele e, più in generale, gli ebrei, rappresentati ancora una volta come oppressori assoluti, mai come soggetti storici complessi, e spesso vittime loro stessi.

La risposta del professore, però, mi ha lasciato perplesso. Mi ha scritto: «Come ben sai, la verità non è solo una». Una frase che suona quasi saggia, e che in apparenza sembra aprire al dialogo. Ma è proprio qui che nasce il problema. Perché se la verità non è una, allora tutto può essere vero — anche ciò che è falso. Ma la verità è una: i fatti sono quelli, e non ce ne sono due versioni contrastanti. Possono esserci interpretazioni diverse, certo, ma solo se fondate su una conoscenza rigorosa dei fatti. Il pluralismo delle opinioni, quando è scollegato dalla verità storica, diventa solo confusione.

Oggi, il sapere sembra essersi trasformato in un enorme pozzo, dove finisce di tutto: conoscenza autentica, propaganda, ignoranza, manipolazione, rabbia ideologica. Anche l’acqua limpida della verità finisce lì, ma si mescola al resto e diventa irriconoscibile. E allora mi domando: ha ancora senso cercare di versare acqua pulita in questo pozzo impazzito, nel mezzo di questo caos che tutto inghiotte?

Me lo chiedo con amarezza.

C’è poi un’altra riflessione che mi è venuta in mente, e che mi accompagna spesso quando provo a discutere di questi temi: parlare con chi non ha una reale conoscenza della storia, dei fatti, dei contesti, è un po’ come giocare a scacchi con qualcuno che conosce solo il movimento dei pezzi, ma ignora completamente la tattica, la strategia, la logica profonda del gioco.

In apparenza stiamo facendo la stessa cosa — stiamo giocando a scacchi — ma in realtà viviamo due esperienze del tutto diverse. Per chi conosce il gioco in profondità, ogni mossa ha un significato, un’intenzione, una visione d’insieme. Per l’altro, è solo un gesto isolato, un movimento senza contesto. Si finisce per parlare due lingue incompatibili.

E lo stesso vale per il dibattito storico e politico: discutere con chi si ferma a slogan, emozioni o a verità preconfezionate è frustrante, perché si scambia l’opinione per conoscenza, l’impressione per analisi, il sentimento per giudizio. Siamo d’accordo sul “campo di gioco” — il Medio Oriente, Israele, la Palestina — ma ci muoviamo al suo interno con strumenti completamente diversi. E spesso chi ignora la profondità del quadro storico e geopolitico ha la convinzione — tipica del nostro tempo — di sapere già abbastanza per giudicare tutto.

In questo contesto, l’illusione che “la verità non sia una” diventa pericolosa, perché legittima ogni posizione, anche quella basata su falsità, e mette sullo stesso piano la ricostruzione storica e la propaganda. Si crea così una confusione totale, dove chi grida più forte sembra avere più ragione, e chi argomenta, chi cerca la complessità, viene percepito come distante, ambiguo o addirittura complice.

Ma se rinunciamo a distinguere tra verità e menzogna, tra storia e costruzione ideologica, allora il dialogo perde senso, e resta solo il rumore. Eppure, nonostante tutto, credo ancora che valga la pena versare acqua pulita in quel pozzo, anche se sappiamo che si confonderà con il resto. Perché non farlo sarebbe come abbandonare il campo agli sciacalli della menzogna

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