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L’obbligo vaccinale è stato, per diversi anni, e lo è ancora, il fulcro di una vasta e talvolta accesa contestazione. Gruppi e associazioni si sono mobilitati in nome della libertà e del diritto di scelta, sollevando critiche legittime riguardo a limitazioni sproporzionate dei diritti individuali. Tuttavia, un’analisi più approfondita del loro operato, arricchita dall’esperienza diretta, rivela un paradosso fondamentale e una debolezza intrinseca che ne svuotano di fatto la portata politica e sociale.

Anche io, come molti, ho creduto che l’aggregazione in gruppi e associazioni fosse la via per opporsi efficacemente agli obblighi sanitari e all’autorità statale. L’idea era che l’unione facesse la forza, offrendo una guida e un supporto, per esempio, a tutti quei genitori che si sentivano isolati e costretti a somministrare i vaccini ai loro figli per timore di subire ripercussioni e sanzioni dalle istituzioni. Si pensava che la resistenza di gruppo potesse rappresentare uno scudo contro l’imposizione e una voce collettiva capace di incidere sul dibattito pubblico. Ma l’esperienza sul campo mi ha rivelato una verità inaspettata e amara: quello che in buona fede è stato fatto, ha finito per aiutare proprio chi voleva imporre l’obbligo. La mia convinzione si è ribaltata. L’aggregazione ha reso la protesta visibile, certo, ma anche facilmente etichettabile e isolabile. Ha offerto al potere politico e mediatico un “nemico” circoscritto e stereotipabile da combattere, permettendo di liquidare la complessità delle critiche a una visione riduzionista e parziale, relegandole a un fenomeno marginale e irrazionale. La mia esperienza diretta ha dimostrato che la nostra azione, anziché indebolire l’imposizione, l’ha di fatto rafforzata, fornendo al sistema una narrazione pronta all’uso per giustificare le proprie scelte.

E, nel profondo, un sospetto gelido e drammatico si è fatto strada: la sensazione che esponenti e rappresentanti di questi stessi movimenti, le voci che avrebbero dovuto guidarci, non fossero altro che strumenti inconsapevoli o, peggio ancora, consapevoli, per incanalare il dissenso in un vicolo cieco. Un tradimento non da parte del nemico dichiarato, ma da chi era (da chi è) al nostro fianco. Un’ombra che rende la sconfitta una tragedia che si consuma nel silenzio delle coscienze tradite.

Questo è il paradosso in cui sono caduti questi movimenti. La loro critica si è fermata all’obbligo vaccinale, senza analizzare le dinamiche strutturali che hanno portato a tale scelta politica e alla sua accettazione prima individuale e poi collettiva dell’intera società: la gestione della sanità pubblica, i rapporti tra istituzioni e cittadini, l’influenza del potere economico e mediatico. Questa visione riduzionista e parziale ha reso il loro discorso politicamente sterile, limitandolo a una reazione emotiva anziché a una proposta di analisi e riforma complessiva. Non si è realizzata una comunità organizzata ma un senso di appartenenza ad una comunità emotiva.

Un’ulteriore debolezza si manifesta nella propensione di questi gruppi a virare verso il populismo. Per ottenere visibilità e consenso, adottano una retorica che semplifica la realtà, che crea una netta divisione tra “il popolo” e un’ “élite” nemica, e si allea con figure e movimenti che utilizzano la medesima strategia. Questa ricerca di visibilità a tutti i costi sacrifica la coerenza e la profondità dell’analisi, riducendo la protesta a un mero scontro politico basato sulla sfiducia generalizzata, anziché su principi solidi e universali. Per quanto le posizioni di un’associazione possano essere valide e fondate, la sua credibilità è messa a rischio quando si associa pubblicamente a chi promuove analisi sociali superficiali o ridicole. Questa prossimità mina la distinzione tra argomentazioni legittime e quelle prive di fondamento, gettando l’associazione in un calderone indistinto dove verità e menzogna si mescolano. Un esempio classico si ha quando un’associazione accetta di essere intervistata da emittenti televisive private che, per attirare pubblico, offrono spazio anche a personaggi in cerca di autore e a tesi assurde. Pur volendo diffondere un messaggio giusto, l’associazione finisce per essere percepita come parte di quel circo mediatico, perdendo di autorevolezza e serietà.

Ma la contraddizione più lampante emerge quando questi stessi gruppi formati anche da medici, che si autodefiniscono “esperti” nel decifrare la propaganda, si gettano anima e corpo in nuove narrazioni senza riconoscerne i meccanismi sottesi. La loro adesione alla causa pro-palestinese, ad esempio, mostra una clamorosa cecità selettiva. Essi sposano una narrazione che presenta pericolosi elementi di propaganda e semplificazione, ma non sembrano accorgersene. Non solo, ma il paradosso si fa ancora più grottesco: ignorano che proprio le forze politiche che hanno chiuso in casa gli italiani durante la “psicopandemia” e hanno imposto l’obbligo vaccinale pediatrico, sono le stesse che oggi promuovono una narrazione acritica contro Israele e l’intero popolo ebraico, che aprono le porte a ideologie politiche desiderose di coprire l’Occidente con un burqa, che ripropongono lo stesso odio che il nazismo e il fascismo hanno vomitato sigli ebrei.

Chi si schiera contro Israele, sposando acriticamente la propaganda propalestinese e ignorando la storia e i fatti, si fa portavoce di un nuovo antisemitismo. Questa narrazione ripropone lo stesso odio che nazismo e fascismo riversarono contro gli ebrei.

L’antisemitismo oggi si maschera da antisionismo, una tattica già stigmatizzata da Martin Luther King. Questa visione distorta avvelena anche la mente di chi guida associazioni che vorrebbero combattere contro gli obblighi sanitari, che, pur dichiarandosi paladine dei diritti e delle libertà, non si accorgono di essere schierate dalla parte di chi ha promosso il genocidio ebraico. Difendono l’odio più antico, la discriminazione per antonomasia.

Vergogna!!

Il riemergere dell’antisemitismo, in qualsiasi sua forma, è il nostro “canarino nella miniera”. La storia, che pure dovrebbe avercelo insegnato, dimostra che quando una civiltà intera abbraccia l’odio contro gli ebrei, la tragedia finisce per colpire tutti.

Questo fenomeno, anziché spingere alla riflessione, rivela un’incoerenza tragica: la loro bussola morale non è la verità o la coerenza.

In definitiva, la domanda che sorge è: che cosa contestano realmente questi gruppi se non riconoscono la propaganda in tutte le sue forme? La risposta più probabile è che la loro protesta non sia un mezzo per raggiungere un fine (la giustizia, la verità, la libertà), ma il fine stesso. La loro lotta è motivata da una profonda autoreferenzialità, dalla necessità di affermare la propria identità di “dissidenti” e “pensatori critici”, di alimentare l’ego di chi si pone al timone di queste barche alla deriva. In un’epoca dominata dall’industria culturale e dalla spettacolarizzazione, anche la ribellione può diventare un prodotto consumabile. La loro contestazione finisce così nel vuoto dello spettacolo mediatico, impotente a produrre un vero cambiamento, e spesso, paradossalmente, rafforza le stesse dinamiche di potere che intende combattere.

Nella La società dello spettacolo Guy Debord afferma che, in un mondo dominato dallo spettacolo, ogni forma di negazione o ribellione viene assorbita e neutralizzata dal sistema stesso, trasformandosi paradossalmente in un’ulteriore manifestazione dello stesso spettacolo. La ribellione, quindi, anziché essere una forza dirompente, diventa un adattamento alla logica che vorrebbe contestare.

Il primo fondamentale passo non è arrendersi, ma riconoscere lucidamente l’inefficacia di certi strumenti di lotta e quindi la necessità di allontanarsi da questi movimenti e associazioni. È un atto di consapevolezza cruciale: le manifestazioni di piazza, le proteste plateali e persino le azioni legali, in una società guidata dalla manipolazione mediatica, sono diventate armi spuntate. Vengono facilmente assorbite, stereotipate e neutralizzate dal sistema stesso, che le trasforma in uno spettacolo senza conseguenze e, quindi: perché prestare il fianco? Comprendere che queste tattiche, un tempo potenti, sono oggi decontestualizzate e persino controproducenti, non è disfattismo, ma un atto di lucidità che ci permette di superare la frustrazione per la sconfitta e di cercare nuove vie.

Di fronte a questo scenario, la strada da percorrere non è la resa, ma l’adozione di un approccio più sottile, profondo e autentico, che si muove in modo opposto al populismo e alla spettacolarizzazione.

Anziché cercare la visibilità, i comunicati altisonanti, la polarizzazione, regalare la nostra delega in bianco a associazioni e movimenti, la nuova tattica prevede di abbandonare l’enfasi e la spettacolarizzazione. Significa smettere di gridare in luoghi dove la voce viene distorta e manipolata e, invece, scendere in mezzo alla gente. Non come leader o “pensatori critici” che guidano una massa, ma come forza pervasiva e silenziosa, che si mescola nelle comunità, nei quartieri, nelle famiglie, nella politica di territorio. Portare il proprio impegno e contributo personale, singolo, individuale. Ognuno di noi, ogni singola persona che intuisce come le nostre libertà siano compromesse da questa società amministrata del consumo e della manipolazione, deve fare la sua parte. Non si tratta di aspettare un leader o un movimento che ci guidi, ma di diventare noi stessi quel cambiamento, con umiltà e tenacia, avendo il coraggio di servirsi del proprio intelletto. La nostra voce deve diventare una presenza costante, capace di penetrare il silenzio assordante dell’indifferenza. Solo così, con la forza tranquilla della costanza, ogni singola goccia del nostro impegno potrà confluire in un’onda. Un’onda di consapevolezza.

Restare inerti e indifferenti alla società, limitandosi a un attivismo da tastiera, non è meno dannoso che delegare ciecamente la propria autonomia a movimenti e associazioni. Spesso, questi ultimi, pur con una contestazione giusta, finiscono per fornire al sistema un avversario così grottesco e inefficace da renderlo, paradossalmente, più forte. In entrambi i casi, si è abdicato all’unica vera forza: la propria capacità critica e di azione.

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