Un pò di storia:
Il fascio littorio affonda le sue radici nell’antica Roma, dove rappresentava un potente simbolo di autorità e di unità. Era formato da un insieme di verghe legate attorno a un’ascia: le verghe simboleggiavano la forza che deriva dall’unione, mentre l’ascia rappresentava il potere coercitivo e la giustizia dello Stato. Questo emblema incarnava dunque l’idea che la coesione e la disciplina collettiva potessero generare un’autorità capace di mantenere l’ordine e garantire la stabilità.
Nel primo dopoguerra, Benito Mussolini riprese questo antico simbolo per farne l’emblema del movimento politico da lui fondato, i Fasci di combattimento del 1919, poi divenuti il Partito Nazionale Fascista. La scelta del fascio littorio non fu casuale: Mussolini volle richiamare la grandezza dell’Impero Romano e attribuire al suo movimento un significato di forza, ordine e potere centralizzato. Tuttavia, alle origini, la matrice ideologica del fascismo non era puramente nazionalista o autoritaria, ma presentava una componente socialista e rivoluzionaria. Lo stesso Mussolini proveniva dal Partito Socialista Italiano e inizialmente cercò di conciliare il nazionalismo con alcune istanze sociali, come la giustizia economica e la solidarietà di classe, per creare una sintesi nuova e “superiore” rispetto ai tradizionali schieramenti politici.
Il termine “fascio”, del resto, deriva dal latino fasces, che significa “insieme” o “legame”. Già prima dell’avvento del fascismo, in Italia il termine era usato per indicare gruppi organizzati di lavoratori o militanti, come nel caso dei fasci siciliani dei lavoratori di fine Ottocento, movimenti di ispirazione socialista e democratica. In questo senso, il concetto di “fascio” esprime l’idea di unione di individui diversi che si stringono insieme per perseguire un fine comune, un’idea che può teoricamente essere applicata a qualsiasi schieramento politico.
Tuttavia, dopo l’esperienza del regime mussoliniano, il termine “fascio” ha perso la sua neutralità originaria e si è caricato di un significato storico e ideologico ben preciso, legato alla dittatura, al nazionalismo estremo e alla soppressione delle libertà democratiche. Eppure, sul piano concettuale più ampio, il simbolo del fascio può ancora essere letto come un richiamo universale alla forza della coesione e dell’unità collettiva, valori che, se liberati dalle loro distorsioni autoritarie, appartengono a ogni società che voglia costruire un progetto politico condiviso.
Per oltre ottant’anni, l’antifascismo in Italia si è concentrato sulla lotta a una precisa forza politica di destra e sulla memoria storica del Ventennio. Questa prospettiva, fondamentale, rischia di limitare la nostra capacità di riconoscere il fascismo come ciò che è, prima di tutto: un atteggiamento mentale e un metodo di azione illiberale, capace di attecchire in ogni schieramento, inclusa la sinistra. Il vero fascismo non è solo camicia nera o saluto romano; è una sindrome di potere che travalica le etichette ideologiche, ponendo una minaccia trasversale al pluralismo e al dibattito democratico.
Per identificare il fascismo come atteggiamento, dobbiamo guardare al metodo, non solo al merito delle sue rivendicazioni. Le costanti illiberali che definiscono questa matrice sono:
– Dogmatismo e verità assoluta: La convinzione che esista una sola “Linea” o verità corretta (sia essa la Nazione, la Razza, la Classe o la Giustizia Sociale) e che tutto il resto sia devianza da sopprimere.
– Demonizzazione dell’avversario: L’avversario politico non è un contendente, ma un nemico assoluto da annientare e zittire, spesso liquidato con etichette morali infamanti (es. “traditore”, “reazionario”, “privilegiato”).
– Primato dell’azione sulla critica: Il disprezzo per il dubbio, la complessità e la critica intellettuale a favore di un’azione immediata e di una verità emotiva/viscerale. La critica interna è considerata un atto di sabotaggio.
– Imposizione morale: L’uso della pressione sociale e dell’ostracismo per forzare l’adesione a una visione del mondo, sostituendo il dibattito con il tribunale morale.
L’analisi di questo metodo diventa cruciale quando si osserva il linguaggio politico contemporaneo della sinistra, soprattutto su temi identitari e culturali. In alcuni casi, l’azione politica, nata per l’emancipazione e la difesa delle minoranze, sembra adottare metodi che riecheggiano il dogmatismo. Temi come i diritti LGBT+ o la lotta al razzismo, pur nascendo da valori di giustizia, rischiano talvolta di essere veicolati con un linguaggio che non ammette discussione né sfumature. Chi solleva obiezioni o desidera un dibattito sull’estensione o la tempistica di certi diritti viene immediatamente etichettato e moralmente delegittimato (es. “omofobo”, “razzista”, “sessista”). In questo modo, la causa non è più un punto di partenza per il dialogo democratico, ma un dogma etico-politico che esige obbedienza e consenso incondizionato, proprio come il fascismo storico esigeva adesione incondizionata al culto dello Stato o del Capo.
La tendenza culturale a relativizzare ogni valore e tradizione in nome di un progressismo e di una globalizzazione inarrestabile rischia di creare un vuoto etico. Se non esistono principi oggettivi o valori condivisi al di fuori dell’ideologia dominante del momento, l’unica forza che può dare direzione alla società è il potere. Per tale motivo i nostri Padri costituenti hanno cercato di limitare il potere, anche della maggioranza, sancendo i principi fondamentali costituzionali che fanno da bussola per la guida della società.
In questo scenario, imporre una visione del mondo, anche in nome dei “diritti umani”, diventa un’azione puramente volontaristica e autoritaria. Il risultato è l’affidamento della direzione della società non al libero dibattito, ma a chi, in un dato momento, detiene il potere egemonico (culturale, politico o mediatico) per definire ciò che è giusto e ciò che è sbagliato. Il prestare il fianco, ad esempio, a narrazioni acritiche sull’Islam o altre minoranze culturali in nome di un’inclusione forzata, spesso ignora criticità interne o la negazione di quei medesimi diritti (come i diritti delle donne o LGBT) che la sinistra rivendica. Questa semplificazione dogmatica è un tratto illiberale. In questo modo si evita la critica complessa demonizzando chi critica, etichettandolo come “islamofobo” o “xenofobo”, per non dover affrontare le contraddizioni ideologiche interne. Inoltre, si sacrifica la verità per la narrazione: si nega la realtà in nome di un principio (l’inclusione assoluta), riproponendo quel meccanismo di propaganda tipico dei regimi che subordinano i fatti all’ideologia.
Il vero antidoto al fascismo come atteggiamento risiede nel difendere in modo rigoroso e incondizionato il metodo democratico e liberale. Una forza politica di sinistra, per rimanere fedele ai suoi valori storici di emancipazione e libertà, deve per prima saper riconoscere e rifiutare:
- L’impulso a zittire chi dissente.
- La pretesa di imporre una verità assoluta, anche se vestita di “diritti umani”.
- Il ricorso alla delegittimazione morale al posto del dibattito razionale.
Il fascismo, pertanto, prospera dove muore la libertà di critica.